D'oppio anniversario quest'anno per i tanti
appassionati di Hermann Hesse: nell'estate di cinquant'anni fa la
dipartita, nove invece i decenni che ci separano dalla prima
pubblicazione in tedesco del suo romanzo più letto: Siddhartha. Per
celebrare le due ricorrenze l'Adelphi riedita proprio quel titolo, uno
dei maggiori successi della sua storia editoriale, targato 1973 (mentre
la prima edizione italiana, per i tipi di Frassinelli, era comparsa con
la fine del fascismo). Il nuovo volume propone la storica traduzione di
Massimo Mila, accompagnata però da pagine di diario, lettere e commenti
degli amici e colleghi Stefan Zweig e Hugo Ball, fotografie. Molto
materiale per fare un po' di luce sulla genesi e il senso del romanzo
«indiano» per ambientazione ma, a ben considerare, universale perché
racconto iniziatico: quasi una fiaba, un archetipo del perdersi per
trovare il vero Sé.
La passione per Siddhartha sbocciò negli Usa del
secondo dopoguerra, la Beat generation cominciò ad infilarlo nello
zaino, a praticare religioni e filosofie d'Oriente. Quando fu il turno
degli hippy, anche loro un'occhiata ad Hesse l'avevano data,
l'orientalismo d'oltreoceano venne esportato dalle nostre parti. Inclusa
la macchietta del giovane capellone che va in India «per trovare se
stesso», ascoltare «la voce del fiume», praticare la compassione
buddista. Il peggio doveva ancora venire, ed era il buddismo esotico più
che esoterico, d'aerobica più che da yoga, impostosi con gli anni '80 e
brulicante nei minestroni New Age. Di questo incolpiamo il capolavoro
(perché tale resta) di Hesse, di aver contribuito alla nascita di questi
buddisti da aperitivo. Gente che forse ha letto Siddhartha a sedici
anni e mai più ha ridato un'occhiata a quelle pagine. Potrebbe scoprire
che il protagonista del romanzo in realtà non si fa discepolo del
Buddha; preferisce l'amore di una cortigiana e la vita da ricco
mercante, preferisce sporcarsi col mondo. E nemmeno si fa buddista dopo
la fuga da quel mondo, ma sceglie di esercitare il mestiere di
traghettatore. Nel dialogo finale con il vecchio amico che invece monaco
si è fatto, Siddhartha nega perfino il dualismo orientale fra Nirvana e
natura illusoria: oseremmo dire che il saggio indiano fa scelte più
cristiane che buddiste. Perché Cristo è venuto anche per i buddisti,
quasi incarnando le loro nobili verità. Del resto Hermann Hesse, figlio
di missionari protestanti in India, cinquant'anni fa non lasciò
disposizioni per un rito funerario indiano. I suoi resti mortali
riposano nel cimitero della chiesa di Sant'Abbondio, a Gentilino, ai
piedi dei monti svizzeri, non su quelli tibetani.
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/quanto-fu-frainteso-siddhartha-hesse-837334.html
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