Gurdjieff e la luna
In
questa generale tendenza a sincretismi facili e New Age, non
raccomanderei a chiunque la lettura di George Gurdjieff. (1) Tuttavia,
personalmente devo a Gurdjieff il recupero di qualcosa che avevo perso
in anni di smarrimento: l’urgenza per la propria salvazione personale.
Lo devo ad un passo particolarmente balzano: quello dove l’allievo
Uspensky (2) riporta la strana cosmologia insegnata da questo strano
personaggio, non privo d’ombre.
Per Gurdjieff, l’universo è fatto di vari piani discendenti, via via più soggetti a leggi meccaniciste. Il piano più alto, che chiama l’Assoluto, è soggetto a una sola legge: la volontà dell’Assoluto stesso. Più sotto ci sono «i mondi», soggetti a tre condizioni; i «soli», che sono soggetti a sei, e così via. La Terra, e noi che viviamo sulla Terra, siamo soggetti a 48 ordini di condizioni. Gurdjieff non specifica quali siano queste condizioni: tempo e spazio (il «qui» ed «ora») vengono da sé, ma vi si aggiungano il peso e la massa, le leggi della fisica che ci incatenano, e probabilmente le leggi «meccaniche» della psiche e della mente non-liberata, che crede di vivere mentre «è vissuta». Occorre «studiarle in noi stessi e riuscire a liberarsene», dice Gurdjeff: e le difficili pratiche psicofisiche che insegnava ai suoi allievi a Fontainbleau miravano appunto a svincolarli da ogni «meccanicità», da ogni automatismo inconscio. Così, «se riuscissimo a liberarci di una metà delle nostre leggi, saremmo assoggettati alle leggi del ‘Sole’ (12 leggi) e dunque di un livello più vicino all’Assoluto». Questa salita di livello consegue non già l’immortalità (tutto è mortale per Gurdjieff, anche Dio), ma una più prolungata «esistenza dopo la morte»: apparentemente c’è qui l’eco di innumerevoli dottrine tradizionali, che identificano le creature angeliche con i piani dei «pianeti», del «Sole» e delle «stelle», la cui durata si misura in eoni, incommensurabili rispetto alla breve vita umana biologica. Ma il passo che interessa è quello in cui si dice dove, dopo la morte, può cadere l’uomo che non si sforza di diventare autonomo, che vive contento di quello che già è, schiavo dei suoi impulsi. Finisce nel mondo della Luna. Il più basso. «Ogni essere vivente libera all’istante della morte una certa quantità dell’energia che l’ha animato; questa energia, ossia l’insieme delle ‘anime’ di tutti i viventi, è attratta verso la Luna, e le apporta il calore e la vita da cui dipende la sua crescita. Nell’economia dell’universo niente si perde mai e quando un’energia ha finito il suo lavoro su un piano, passa su un altro piano». Per Gurdjieff la Luna, oggi fredda e sterile, finirà – caricata da queste energie che risucchia – con il diventare un pianeta capace di ospitare la vita, come la Terra; e in quel lontanissimo giorno, la Terra sarà il Sole della Luna. Ma ecco il punto: «Le anime che vanno alla Luna, e che forse possiedono una certa somma di coscienza e di memoria, si trovano là sottomesse a 96 leggi: le condizioni della vita minerale. In tali condizioni non c’è più salvezza possibile per esse al di fuori di un’evoluzione generale, in cicli di tempo incommensurabilmente lunghi. La Luna è la ‘tenebra esteriore’ di cui parla la dottrina cristiana, dove non è che pianto e stridor di denti». Fu questo che mi scosse. La dannazione di una vita ridotta alla schiavitù di un minerale e tuttavia con un residuo di coscienza e di memoria. O forse, qualcosa di diverso: il processo radicalmente «oggettivo», come dire scientifico, che Gurdjieff descriveva come il destino di ognuno di noi che non si sforza di passare «per la porta stretta»; e la coincidenza dell’ultimo stadio del mondo oggettivo come «le tenebre esteriori»: quella frase agghiacciante ed estrema con cui Cristo descriveva una sofferenza indicibile e, a tutti gli effetti, eterna. Non si pensi a un sincretismo di alcun genere. Né quella idea lunare è poi tanto balzana quanto sembra. La nozione della Luna come il «luogo» o il mondo (sanscrito «loka») dove si raccoglie l’energia perduta e sprecata degli uomini, come un residuo psichico inutilizzabile, è anch’essa tradizionale. I pazzi sono da sempre detti «lunatici». Ariosto manda Astolfo a cercare sulla Luna il senno perduto di Orlando pazzo furioso. E lì trova «Le lacrime e i sospiri degli amanti, / l’inutil tempo che si perde a giuoco, e l’ozio lungo d’uomini ignoranti, / vani disegni che non han mai loco, i vani desideri sono tanti, /che la più parte ingombran di quel loco: ciò che in somma qua giù perdesti mai, / là su salendo ritrovar potrai». (3) L’ironia di Ariosto non inganni: qui descrive, con mortale precisione, le vane frivolezze che portano l’anima alla perdizione. Le intenzioni di cui è lastricato, come si dice, l’inferno. Sotto il sorriso, mastro Ludovico è serio, e lo indica il fatto che fa, come guida di Astolfo, san Giovanni, l’evangelista, «l’autore dell’oscura Apocalisse». Via via, l’ironia cede a lezioni cristiane: là sulla Luna sono le elemosine che i peccatori lasciano dopo la morte per salvarsi fuori tempo massimo, le inutili preghiere dei peccatori non pentiti: «Di versate minestre una gran massa / vede, e domanda al suo dottor ch’importe. L’elemosina è (dice) che si lassa / alcun, che fatta sia dopo la morte». «Là là su infiniti prieghi e voti stanno, / che da noi peccatori a Dio si fanno». Sulla Luna di Ariosto, Giovanni addita le Parche: che «con tali stami/ qui filano le vite a voi mortali». Insomma la visione di Ariosto sembra coincidere in modo impressionante con la cosmologia spirituale di Gurdjieff. Il georgiano, nato greco-ortodosso, non faceva gran conto della Chiesa. Ma qual era la «religione» di questo personaggio discutibile e poco comune? Pare una inedita forma di buddhismo, ed espressa con un linguaggio estremo, allo scopo pedagogico di suscitare l’urgenza della salvazione in questa vita umana. E’ di questo genere la sua dichiarazione che «l’uomo non ha l’anima, deve fabbricarsela». E’ buddhista il suo dichiarare tutto l’universo «materiale», anche Dio, e tutto «mortale», anche l’Assoluto, in quanto soggetto ancora ad una legge, sia pure la legge della sua volontà. Per Buddha, sappiamo, oltre a questo esiste un Abisso assolutamente incondizionato e solo quello è libero, il Nirvana. Per Buddha, «gli dei sono stupidi» perché, troppo longevi, finiscono per dimenticare il loro stato condizionato, la loro mortalità. E’ buddhista in Gurdjeff anche la oggettività spassionata della sua dottrina: siamo sottomessi a leggi impersonali, esistono metodi per svincolarsene, ma la via è difficile ed equivale ad acquistare una perfetta «presenza a se stesso». Quest’uomo sarcastico, affascinante raccontatore di panzane forse veridiche, era esoso, chiese cifre notevoli ai suoi allievi per i suoi insegnamenti; ma quando furono in difficoltà per la guerra mondiale, li mantenne e si prodigò per loro, più che generoso. Ad un certo momento, nei suoi colloqui, accenna al motivo per cui diffonde le sue tecniche: ha raggiunto un livello in cui non può lui stesso progredire spiritualmente, se non insegnando ad altri la possibilità di salvezza. E’ una forma asciutta, buddhista, di «carità»? Non sapremo mai. Quando morì disse ai suoi discepoli: «Vi lascio tra buoni guanciali». Sarcastico fino all’ultimo respiro. E tuttavia devo a lui la paura di perdermi, e l’urgenza di salvarmi in questa vita. Io non sono suo discepolo, né mai ho provato e preteso di ripetere i suoi esercizi fisici, armonici e musicali. Direte: potevo apprenderlo già dal Vangelo, dalla Chiesa. Ma da quanto tempo la Chiesa non parla più della perdizione, e dell’urgente necessità di scamparla? O come mai ciò che predicano cardinali e vescovi non lascia nell’anima il senso di quell’urgenza? Gesù adottò anch’Egli un linguaggio estremo, preso dalle zone estreme della lingua, per spingerci all’urgente necessità. «Se il vostro occhio ti è di scandalo, strappalo da te; meglio per te entrare nella Vita con un occhio solo, che con due occhi finire nella Geenna». «Non ciò che entra nell’uomo lo rende impuro, ma ciò che ne esce. Perché ciò che entra va a finire nel cesso…». «Sepolcri imbiancati, pieni dentro di sporcizia». Ed anche «le tenebre esteriori», lo «stridor di denti», vengono da una zona inaudita perché – al contrario di Lui – non ne sappiamo niente. Non ne sappiamo per ora. Spiace dirlo, ma non pare di sentire simili estreme parole dalla bocca dei cardinal Martini, Tettamanzi o Ruini. Cristo forgiò una lingua rovente, apposta per scuoterci. Com’è che gli ecclesiastici non sentono lo stesso bisogno? Ripetono tiepide formule usuali, apprese, levigate dall’unzione e inefficaci; che non imprimono alcuna urgenza, e nemmeno alcuna convinzione. Forse se ne vergognano? O credono che delle espressioni forti e originalmente terribili si sia abusato in passato? Forse. Ma temo che il motivo sia un altro. E’ che la loro fede è diventata moralistica, ed ha finito per essere di morale «sociale». Anche in questi giorni, tra i motivi per cui ci si deve opporre ai PACS e alle nozze gay, hanno ripetuto che è in gioco «la famiglia» (ed è vero); contro l’aborto e l’eutanasia, invocano il «rispetto della vita» (verissimo). Ma per quale motivo dovrebbero starli a sentire gli increduli, convinti che non ci sia alcun aldilà, che certi atti non portino ad alcuna «tenebra esteriore», ad alcuna riduzione della vita alla schiavitù gelida e paralizzata del minerale? L’appello alla morale non ha alcun senso, se non si paventano «le tenebre esteriori» in cui «non c’è più salvezza possibile». In questione, coi PACS e l’aborto o l’eutanasia, non è solo o tanto la salute della società naturale; è in gioco il nostro destino, la nostra perdizione. Forse c’è il timore di essere derisi se si evoca il peccato. Ma «peccato» è già parola moralistica. Ciò che descrive invece Gurdjeff è un processo oggettivo, impersonale, basato sulle leggi ferree dell’universo, quasi una fisica spirituale. Chi non esercita il dominio sui sensi, chi si contenta di essere quello che già è, a suo gusto e senza sforzarsi di risalire la corrente delle «48 leggi» che ci condizionano, diventa ineluttabilmente quella poltiglia umana, personalità evanescente e informe, che finisce sulla Luna. Là si accumulano residui d’anime senza forza né «io» vero, cadute sotto il giogo delle 96 condizioni. Infatti lassù «non c’è che pianto e stridor di denti», ossia: nemmeno più gli «io» sussistono, ma solo sub-personalità cristallizzate nel gelo estremo, inimmaginabile.
Maurizio Blondet
Note
1) George Gurdjeff (forse 1872-1947) raccolse attorno a sé, nella tenuta del Prieurè presso Fontainbleau, allievi di notevole qualità intellettuale: scrittori come Renè Daumal e Katherine Mansfield, musicisti come Hartmann, architetti come F.L. Wright, editori come Margaret Anderson (l’editrice dell’«Ulysses» di Joyce), Louis Pauwels, Peter Brook, De Salzmann, Denis Saurat, artisti, matematici, pittori. Qualunque cosa si pensi di ciascuno di questi personaggi, non erano certo il tipico gruppetto new-age facile alle auto-illusioni.
2) Ouspensky, «Fragments d’un enseignement inconnu», Stock1991, pagine 129-131.
3) Ariosto, «Orlando Furioso», canto XXXIV.
http://www.azionetradizionale.com/2007/02/19/gurdjieff-e-la-luna/
Per Gurdjieff, l’universo è fatto di vari piani discendenti, via via più soggetti a leggi meccaniciste. Il piano più alto, che chiama l’Assoluto, è soggetto a una sola legge: la volontà dell’Assoluto stesso. Più sotto ci sono «i mondi», soggetti a tre condizioni; i «soli», che sono soggetti a sei, e così via. La Terra, e noi che viviamo sulla Terra, siamo soggetti a 48 ordini di condizioni. Gurdjieff non specifica quali siano queste condizioni: tempo e spazio (il «qui» ed «ora») vengono da sé, ma vi si aggiungano il peso e la massa, le leggi della fisica che ci incatenano, e probabilmente le leggi «meccaniche» della psiche e della mente non-liberata, che crede di vivere mentre «è vissuta». Occorre «studiarle in noi stessi e riuscire a liberarsene», dice Gurdjeff: e le difficili pratiche psicofisiche che insegnava ai suoi allievi a Fontainbleau miravano appunto a svincolarli da ogni «meccanicità», da ogni automatismo inconscio. Così, «se riuscissimo a liberarci di una metà delle nostre leggi, saremmo assoggettati alle leggi del ‘Sole’ (12 leggi) e dunque di un livello più vicino all’Assoluto». Questa salita di livello consegue non già l’immortalità (tutto è mortale per Gurdjieff, anche Dio), ma una più prolungata «esistenza dopo la morte»: apparentemente c’è qui l’eco di innumerevoli dottrine tradizionali, che identificano le creature angeliche con i piani dei «pianeti», del «Sole» e delle «stelle», la cui durata si misura in eoni, incommensurabili rispetto alla breve vita umana biologica. Ma il passo che interessa è quello in cui si dice dove, dopo la morte, può cadere l’uomo che non si sforza di diventare autonomo, che vive contento di quello che già è, schiavo dei suoi impulsi. Finisce nel mondo della Luna. Il più basso. «Ogni essere vivente libera all’istante della morte una certa quantità dell’energia che l’ha animato; questa energia, ossia l’insieme delle ‘anime’ di tutti i viventi, è attratta verso la Luna, e le apporta il calore e la vita da cui dipende la sua crescita. Nell’economia dell’universo niente si perde mai e quando un’energia ha finito il suo lavoro su un piano, passa su un altro piano». Per Gurdjieff la Luna, oggi fredda e sterile, finirà – caricata da queste energie che risucchia – con il diventare un pianeta capace di ospitare la vita, come la Terra; e in quel lontanissimo giorno, la Terra sarà il Sole della Luna. Ma ecco il punto: «Le anime che vanno alla Luna, e che forse possiedono una certa somma di coscienza e di memoria, si trovano là sottomesse a 96 leggi: le condizioni della vita minerale. In tali condizioni non c’è più salvezza possibile per esse al di fuori di un’evoluzione generale, in cicli di tempo incommensurabilmente lunghi. La Luna è la ‘tenebra esteriore’ di cui parla la dottrina cristiana, dove non è che pianto e stridor di denti». Fu questo che mi scosse. La dannazione di una vita ridotta alla schiavitù di un minerale e tuttavia con un residuo di coscienza e di memoria. O forse, qualcosa di diverso: il processo radicalmente «oggettivo», come dire scientifico, che Gurdjieff descriveva come il destino di ognuno di noi che non si sforza di passare «per la porta stretta»; e la coincidenza dell’ultimo stadio del mondo oggettivo come «le tenebre esteriori»: quella frase agghiacciante ed estrema con cui Cristo descriveva una sofferenza indicibile e, a tutti gli effetti, eterna. Non si pensi a un sincretismo di alcun genere. Né quella idea lunare è poi tanto balzana quanto sembra. La nozione della Luna come il «luogo» o il mondo (sanscrito «loka») dove si raccoglie l’energia perduta e sprecata degli uomini, come un residuo psichico inutilizzabile, è anch’essa tradizionale. I pazzi sono da sempre detti «lunatici». Ariosto manda Astolfo a cercare sulla Luna il senno perduto di Orlando pazzo furioso. E lì trova «Le lacrime e i sospiri degli amanti, / l’inutil tempo che si perde a giuoco, e l’ozio lungo d’uomini ignoranti, / vani disegni che non han mai loco, i vani desideri sono tanti, /che la più parte ingombran di quel loco: ciò che in somma qua giù perdesti mai, / là su salendo ritrovar potrai». (3) L’ironia di Ariosto non inganni: qui descrive, con mortale precisione, le vane frivolezze che portano l’anima alla perdizione. Le intenzioni di cui è lastricato, come si dice, l’inferno. Sotto il sorriso, mastro Ludovico è serio, e lo indica il fatto che fa, come guida di Astolfo, san Giovanni, l’evangelista, «l’autore dell’oscura Apocalisse». Via via, l’ironia cede a lezioni cristiane: là sulla Luna sono le elemosine che i peccatori lasciano dopo la morte per salvarsi fuori tempo massimo, le inutili preghiere dei peccatori non pentiti: «Di versate minestre una gran massa / vede, e domanda al suo dottor ch’importe. L’elemosina è (dice) che si lassa / alcun, che fatta sia dopo la morte». «Là là su infiniti prieghi e voti stanno, / che da noi peccatori a Dio si fanno». Sulla Luna di Ariosto, Giovanni addita le Parche: che «con tali stami/ qui filano le vite a voi mortali». Insomma la visione di Ariosto sembra coincidere in modo impressionante con la cosmologia spirituale di Gurdjieff. Il georgiano, nato greco-ortodosso, non faceva gran conto della Chiesa. Ma qual era la «religione» di questo personaggio discutibile e poco comune? Pare una inedita forma di buddhismo, ed espressa con un linguaggio estremo, allo scopo pedagogico di suscitare l’urgenza della salvazione in questa vita umana. E’ di questo genere la sua dichiarazione che «l’uomo non ha l’anima, deve fabbricarsela». E’ buddhista il suo dichiarare tutto l’universo «materiale», anche Dio, e tutto «mortale», anche l’Assoluto, in quanto soggetto ancora ad una legge, sia pure la legge della sua volontà. Per Buddha, sappiamo, oltre a questo esiste un Abisso assolutamente incondizionato e solo quello è libero, il Nirvana. Per Buddha, «gli dei sono stupidi» perché, troppo longevi, finiscono per dimenticare il loro stato condizionato, la loro mortalità. E’ buddhista in Gurdjeff anche la oggettività spassionata della sua dottrina: siamo sottomessi a leggi impersonali, esistono metodi per svincolarsene, ma la via è difficile ed equivale ad acquistare una perfetta «presenza a se stesso». Quest’uomo sarcastico, affascinante raccontatore di panzane forse veridiche, era esoso, chiese cifre notevoli ai suoi allievi per i suoi insegnamenti; ma quando furono in difficoltà per la guerra mondiale, li mantenne e si prodigò per loro, più che generoso. Ad un certo momento, nei suoi colloqui, accenna al motivo per cui diffonde le sue tecniche: ha raggiunto un livello in cui non può lui stesso progredire spiritualmente, se non insegnando ad altri la possibilità di salvezza. E’ una forma asciutta, buddhista, di «carità»? Non sapremo mai. Quando morì disse ai suoi discepoli: «Vi lascio tra buoni guanciali». Sarcastico fino all’ultimo respiro. E tuttavia devo a lui la paura di perdermi, e l’urgenza di salvarmi in questa vita. Io non sono suo discepolo, né mai ho provato e preteso di ripetere i suoi esercizi fisici, armonici e musicali. Direte: potevo apprenderlo già dal Vangelo, dalla Chiesa. Ma da quanto tempo la Chiesa non parla più della perdizione, e dell’urgente necessità di scamparla? O come mai ciò che predicano cardinali e vescovi non lascia nell’anima il senso di quell’urgenza? Gesù adottò anch’Egli un linguaggio estremo, preso dalle zone estreme della lingua, per spingerci all’urgente necessità. «Se il vostro occhio ti è di scandalo, strappalo da te; meglio per te entrare nella Vita con un occhio solo, che con due occhi finire nella Geenna». «Non ciò che entra nell’uomo lo rende impuro, ma ciò che ne esce. Perché ciò che entra va a finire nel cesso…». «Sepolcri imbiancati, pieni dentro di sporcizia». Ed anche «le tenebre esteriori», lo «stridor di denti», vengono da una zona inaudita perché – al contrario di Lui – non ne sappiamo niente. Non ne sappiamo per ora. Spiace dirlo, ma non pare di sentire simili estreme parole dalla bocca dei cardinal Martini, Tettamanzi o Ruini. Cristo forgiò una lingua rovente, apposta per scuoterci. Com’è che gli ecclesiastici non sentono lo stesso bisogno? Ripetono tiepide formule usuali, apprese, levigate dall’unzione e inefficaci; che non imprimono alcuna urgenza, e nemmeno alcuna convinzione. Forse se ne vergognano? O credono che delle espressioni forti e originalmente terribili si sia abusato in passato? Forse. Ma temo che il motivo sia un altro. E’ che la loro fede è diventata moralistica, ed ha finito per essere di morale «sociale». Anche in questi giorni, tra i motivi per cui ci si deve opporre ai PACS e alle nozze gay, hanno ripetuto che è in gioco «la famiglia» (ed è vero); contro l’aborto e l’eutanasia, invocano il «rispetto della vita» (verissimo). Ma per quale motivo dovrebbero starli a sentire gli increduli, convinti che non ci sia alcun aldilà, che certi atti non portino ad alcuna «tenebra esteriore», ad alcuna riduzione della vita alla schiavitù gelida e paralizzata del minerale? L’appello alla morale non ha alcun senso, se non si paventano «le tenebre esteriori» in cui «non c’è più salvezza possibile». In questione, coi PACS e l’aborto o l’eutanasia, non è solo o tanto la salute della società naturale; è in gioco il nostro destino, la nostra perdizione. Forse c’è il timore di essere derisi se si evoca il peccato. Ma «peccato» è già parola moralistica. Ciò che descrive invece Gurdjeff è un processo oggettivo, impersonale, basato sulle leggi ferree dell’universo, quasi una fisica spirituale. Chi non esercita il dominio sui sensi, chi si contenta di essere quello che già è, a suo gusto e senza sforzarsi di risalire la corrente delle «48 leggi» che ci condizionano, diventa ineluttabilmente quella poltiglia umana, personalità evanescente e informe, che finisce sulla Luna. Là si accumulano residui d’anime senza forza né «io» vero, cadute sotto il giogo delle 96 condizioni. Infatti lassù «non c’è che pianto e stridor di denti», ossia: nemmeno più gli «io» sussistono, ma solo sub-personalità cristallizzate nel gelo estremo, inimmaginabile.
Maurizio Blondet
Note
1) George Gurdjeff (forse 1872-1947) raccolse attorno a sé, nella tenuta del Prieurè presso Fontainbleau, allievi di notevole qualità intellettuale: scrittori come Renè Daumal e Katherine Mansfield, musicisti come Hartmann, architetti come F.L. Wright, editori come Margaret Anderson (l’editrice dell’«Ulysses» di Joyce), Louis Pauwels, Peter Brook, De Salzmann, Denis Saurat, artisti, matematici, pittori. Qualunque cosa si pensi di ciascuno di questi personaggi, non erano certo il tipico gruppetto new-age facile alle auto-illusioni.
2) Ouspensky, «Fragments d’un enseignement inconnu», Stock1991, pagine 129-131.
3) Ariosto, «Orlando Furioso», canto XXXIV.
http://www.azionetradizionale.com/2007/02/19/gurdjieff-e-la-luna/
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