venerdì 31 marzo 2017

Il racconto di Karapet di Tiflis - Gurdjieff

Circa trenta o trentacinque anni fa, il deposito della stazione ferroviaria di Tiflis aveva una "sirena a vapore".
Ogni mattina la sirena svegliava gli operai della strada ferrata e gli impiegati del deposito. Ma siccome la stazione di Tiflis si trovava su una collina da cui il fischio raggiungeva quasi tutti i quartieri della città, non svegliava solo gli impiegati delle ferrovie ma anche l'altra gente. Mi sembra anzi che l'amministrazione municipale di Tiflis avesse avuto con l'amministrazione delle ferrovie uno scambio epistolare relativo al disturbo arrecato al sonno mattutino di pacifici cittadini.
L'obbligo di far funzionare la sirena era stato affidato proprio a Karapet, allora impiegato al deposito. Al mattino appena arrivato, prima di tirare la corda che azionava il fischio, costui sventagliava le braccia in tutte le direzioni e gridava solennemente, a pieni polmoni, come un mullah maomettano dall'alto del suo minareto:
«Tua madre è una... uhm! Tuo padre è un... uhm! Tuo nonno è il più grande... uhm! Che i tuoi occhi, il tuo naso, il tuo fegato, la tua milza, i tuoi calli., uhm!» In una parola, scagliava tutt'intorno le ingiurie peggiori che conosceva, e soltanto quando aveva finito impugnava la corda della sirena.
Avendo sentito parlare di Karapet e della sua abitudine, una sera decisi di andarlo a trovare dopo la fine del lavoro, portandomi dietro una botticella di vino di Cacezia; e dopo aver fatto "il rituale dei brindisi" ancora d'uso in quei paesi, gli chiesi – utilizzando la forma suggeritami dal codice di cortesia locale, s'intende – il motivo del suo modo d'agire.
Tracannò d'un colpo il suo bicchiere, e dopo aver intonato un famoso canto conviviale indispensabile in Georgia in simili circostanze – «Rimpinziamoci fino al collo, amici» – mi rispose senza fretta.
«Lei non beve il vino alla maniera moderna, e cioè solo per le apparenze; lei beve in maniera franca e onesta. Questo mi dimostra che se cerca i motivi del mio usuale comportamento non lo fa per semplice curiosità, come gl'ingegneri e i tecnici che mi perseguitano con le loro domande, ma lo fa perché veramente desidera sapere; e perciò io voglio – anzi, considero in tutta franchezza che devo – confessarle onestamente le scrupolose riflessioni che mi hanno condotto a comportarmi così.
In passato lavoravo al deposito come manovale nei turni di notte e dovevo lavare le caldaie delle locomotive. Dopo l'installazione di questa sirena a vapore, il capo-deposito, certamente considerando la mia età e quindi la mia crescente incapacità a svolgere mansioni pesanti, mi assegnò come compito unicamente l'obbligo di venire mattina e sera, a ora fissa, ad azionare il fischio.
Fin dalla prima settimana dopo l'assunzione nel mio nuovo servizio, notai che dopo aver eseguito il mio compito per una o due ore mi sentivo piuttosto a disagio.
Era uno strano sentimento... Cresceva di giorno in giorno, e finì per trasformarsi in un'angoscia istintiva che mi faceva perdere l'appetito persino per la zuppa di cipolle. Ci pensavo e ci ripensavo senza sosta, e cercavo di indovinarne la causa.
Ruminavo il mio problema con particolare intensità quando mi recavo al lavoro e quando me ne tornavo a casa.
Ma nonostante tutti i miei sforzi non riuscivo a trovare nessuna spiegazione, neanche approssimativa.
Le cose andarono avanti così per quasi sei mesi, e quando già avevo i calli alle mani a forza di tirare la corda della sirena, improvvisamente per un caso stranissimo riuscii a comprendere che cosa stava accadendo.
Lo shock che mi portò a una corretta comprensione e a un pieno convincimento fu provocato da un'esclamazione che udii nelle circostanze, davvero strane, che le racconterò.
Me ne andavo una bella mattina verso il mio deposito, senza aver dormito molto perché avevo passato una parte della notte da certi vicini a festeggiare il compleanno della loro nona figlia, e l'altra parte a leggere un libro, raro e molto interessante, che mi era capitato in mano per caso ed era intitolato Sogni e Magia. Mentre mi stavo affrettando alla volta della sirena, scorsi improvvisamente all'angolo della strada un infermiere di mia conoscenza, dipendente del servizio sanitario municipale, che mi fermò con un cenno.
La funzione di quest'infermiere consisteva nel percorrere a ore fisse le strade del paese, insieme con un aiutante che spingeva un carretto appositamente attrezzato, e nel catturare al passaggio tutti i cani randagi che non avevano al collare la targhetta metallica comprovante il pagamento della tassa municipale alla città di Tiflis. In seguito egli portava i cani al macello, dove venivano custoditi per due settimane a spese della città e nutriti coi resti della macellazione. Se durante questo periodo non erano stati reclamati dai loro padroni e se la tassa non era stata pagata, i cani, con una certa solennità, venivano inoltrati verso un'uscita che conduceva direttamente a un forno speciale.
Poco dopo dall'altro lato di questo notevolissimo forno, con un incantevole gorgoglio e gran vantaggio del nostro comune, colava fuori una certa quantità di grasso, di purezza ideale e trasparenza perfetta, destinato alla fabbricazione di sapone e forse anche di qualcos'altro; e inoltre si riversava all'esterno, fra diversi rumori altrettanto incantevoli, una gran quantità di sostanze molto utili per la concimazione.
Il mio amico infermiere acchiappava i cani con un procedimento semplicissimo e molto ingegnoso.
Egli si era procurato una vecchia rete da pesca di grande ampiezza, che portava ripiegata in un certo modo sulla potente spalla nel corso delle spedizioni intraprese a beneficio dell'umanità nei quartieri malfamati della nostra città, e quando un cane "senza passaporto" cadeva nel campo percettivo dei suoi occhi onniveggenti e terribili per tutta la stirpe canina, lui, senza fretta, si avvicinava silenziosamente al cane con l'agilità di una pantera, e cogliendo il momento in cui l'animale mostrava interesse o affezione per qualcosa, gli gettava addosso la rete e lo avviluppava abilmente; poi, tirando a sé il carretto, allentava il viluppo in modo che il cane ne uscisse per entrare direttamente in gabbia.
Al momento di fermarmi, l'amico infermiere stava appunto sorvegliando una vittima, cioè spiava il momento opportuno per gettare la rete su un cane che scodinzolava davanti a una cagna.
Quando stava per compiere il gesto fatale, la campana della chiesa vicina si mise improvvisamente a suonare per chiamare gli abitanti alla messa del mattino.
Spaventato dai rintocchi inattesi che rompevano il silenzio mattutino, il cane diede un balzo di lato e fuggì di volata, ventre a terra, lungo la via deserta.
L'infermiere, scosso da capo a piedi da una furia terribile, gettò la rete sul marciapiede, e sputando sopra la spalla sinistra urlò: "Ah, per tutti i diavoli! Proprio adesso doveva suonare!"
 Appena l'esclamazione dell'infermiere ebbe raggiunto il mio apparato riflessivo, molti pensieri mi si affollarono in testa, e mi condussero infine a una visione secondo me corretta della ragione per cui ero preda di quell'angoscia istintiva.
Subito dopo la scoperta provai una forte contrarietà per il fatto che un'idea così semplice e limpida non mi fosse mai venuta in mente prima.
 Sentivo con tutto l'essere che il mio intervento nella vita pubblica non poteva che portare al risultato di quella sensazione che la mia presenza subiva ormai da sei mesi.
In effetti, qualsiasi uomo strappato al suo dolce sonno mattutino dall'urlo infernale della sirena a vapore non poteva astenersi dal riversare le sue ingiurie, per dritto e per traverso, su di me ch'ero la causa di quell'infernale cacofonia – e questo faceva indubbiamente confluire verso la mia persona le vibrazioni di numerosi malauguri da tutte le parti.
 Quel famoso giorno, dopo aver compiuto il mio dovere, andai a sedermi nell'osteria vicina in preda alla mia solita angoscia. Mentre mangiavo il mio spuntino, riflettevo; e giunsi alla conclusione che se avessi anticipatamente ingiuriato tutti quelli che parevano fortemente disturbati dal mio servizio, costoro, trovandosi nella "sfera dell'idiozia" cioè, secondo il libro che avevo letto la notte precedente, nel dormiveglia, avrebbero potuto insultarmi a volontà senza che questo avesse su di me alcun effetto.
E devo dire che da allora non ho mai più sentito quell'angoscia istintiva».


G. I. Gurdjieff - I racconti di Belzebù a suo nipote, pp 44-47

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