Ma i cacciatori dovevano uccidere gli animali per vivere, no? E, così facendo, non uccidevano i loro dei e antenati?
Sì, e naturalmente si sentivano in colpa per questo, sicché dovevano chiedere perdono all'animale ucciso - o meglio alla sua anima, al principio vitale racchiuso in esso, cioè alla divinità che ospitava nel proprio corpo mortale - mediante offerte, per esempio di erbe, pietre, conchiglie e via dicendo: oggetti che venivano deposti sulla salma della bestia, dopo di che il cacciatore pregava, cioè offriva il suo desiderio alla divinità, chiedendole scusa per averla offesa e spiegandole che doveva pure mangiare. Da certi segni nel cielo o in terra, il cacciatore arguiva se la sua preghiera era stata accolta e se il suo gesto - lo spargimento di sangue di un messaggero che era anche suo "fratello", figlio come lui dell'aldilà - era stato "perdonato" o meno.
Mircea Eliade
Francesco Saba Sardi, Il grande libro delle religioni, pag. 18
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