domenica 12 novembre 2017

Ignoranza e Karma - Tiziano Terzani

Questa era una delle famose caverne in cui la gente viveva durante la guerra. Qui, nelle viscere di sasso della montagna, le bombe dei B-52 non erano potute arrivare. Ma nel 1968 un T-28, un piccolo aereo delle forze governative filoamericane, era entrato nella valle, s‘era avvicinato alla montagna, aveva visto la caverna e l’aveva centrata con un razzo al fosforo. L’esplosione fra le pareti di pietra fu tremenda. Morirono più di 400 persone. Nessuno si salvò.
Dopo una trentina di metri la caverna scende, diventa buia, e soltanto al lume della mia pila tascabile riesco a proseguire. Presto mi accorgo di camminare su delle ossa; alcune piccole, come fossero di bambini. Alla fine sono solo e nell’assoluto silenzio immagino di sentire, attutite come da un velo, le urla di tanti anni prima. Nel buio ripenso alla diversa prospettiva di quel momento: il pilota, teso ed eccitato, che arriva fin qui, spara, si accorge di aver centrato e torna euforico alla base; e lo strazio dei morti, i lamenti dei feriti che si trascinano sino in fondo alla caverna per non uscirne più.
Certo: è perché so che mi commuovo, che «sento». Ma una tragedia così, o un altro grande dolore, non lascia comunque, in qualche modo, una traccia di sé nell’aria e nella terra? Che cosa volevano dire gli antichi riferendosi allo spiritus loci se non che qualcosa resta ad aleggiare in un posto dove è avvenuto qualcosa di eccezionale?
«Ci siete stati in quella caverna?» chiesi, mentre scendevo, a un gruppo di ragazzini che da un fusto di banano ritagliavano delle ruote per una loro immaginaria automobile. Tutti assieme indietreggiarono come atterriti. «No! Non ci si può andare. Fa paura. Ci sono i pii.» Gli spiriti, i fantasmi.
In Occidente quella sarebbe la Caverna dei Martiri, ogni anno ci sarebbero cerimonie di rimembranza. La storia della caverna sarebbe una di quelle che si insegnano a scuola. Per i laotiani non è così. Per loro la storia non ha questo senso e in quella buca non ci sono i resti dei loro familiari, ma solo dei fantasmi che hanno impregnato le mura di grida, di sofferenza, di orrore da cui debbono semplicemente stare lontani.
Nella loro visione del mondo il rapporto di causa ed effetto non è quello della nostra logica. Poco prima di me, nella regione della Piana delle Giare c’era stato per qualche settimana un gruppo di esperti americani in cerca dei MIA (Missing in Action), i piloti degli aerei abbattuti durante la guerra la cui morte non è mai stata accertata. Gli americani scavavano nella giungla, setacciavano la terra per recuperare anche solo la scheggia di un osso e passavano le sere a Phongsovane. I laotiani non avevano manifestato verso di loro la benché minima ostilità. Nessuno era andato anche solo a mostrar loro uno dei tanti bambini che nascono ancora oggi deformi a causa degli agenti chimici sganciati nella regione un quarto di secolo fa.
La moglie del fotografo di Phongsovane ne teneva in braccio uno di tre anni con una testa grossa e quadra e le mani tozze dalle dita tutte attaccate l‘una all’altra. «Karma», disse, attribuendo buddhisticamente l’orrore di quel figlio a una qualche sua colpa nella vita precedente.









Tiziano Terzani - Un indovino mi disse, pp 39-40

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