domenica 12 novembre 2017

Ma è sempre così terra terra, così semplice semplice, il Dalai Lama? - Tiziano Terzani

Nelle poche ore in cui era rimasto in città, il Dalai Lama era venuto al Club dei Corrispondenti stranieri e lì, davanti alla più fitta folla di giornalisti mai riunitisi in quella sala al ventunesimo piano dell‘Hotel Dusit Thani, aveva lanciato il suo appello per la liberazione di Aung San Suu Kyi, l’eroina del movimento per la democrazia, sempre prigioniera dei militari birmani (questo era lo scopo della visita) e aveva parlato di bontà, d’amore, di cuore puro e di pace.
Io, di quel discorso, ero rimasto molto deluso e non mi consolò il fatto che alla fine, con quel suo fare bonario e sorridente, il Dalai Lama, sceso dal podio, mi si fermò davanti, come mi riconoscesse, giunse le mani davanti al petto e, quando allo stesso modo contraccambiai il saluto, mi prese forte i polsi, me li scosse, mi fece dei calorosissimi auguri e mi dette una qualche benedizione.
«Ma è sempre così terra terra, così semplice semplice, il Dalai Lama? Ha parlato come un parroco di campagna!» dissi per provocazione a uno dei monaci che gli si affrettavano dietro. Era vestito, come gli altri, con una bella tonaca viola, dai risvolti gialli e rossi, ma la faccia era quella di un occidentale, pallida, con piccoli occhiali da miope. L’avevo notato tutto il tempo perché, con un sorriso felice, come se ogni parola del Dalai Lama fosse la più giusta, la più bella che avesse mai sentito, stava impalato a bere dalle sue labbra.
«La grandezza può anche manifestarsi nella semplicità. Questa è la grandezza del Dalai Lama», disse il monaco con il suo immutato, felice sorriso. Il suo inglese era perfetto, ma dall’accento capii che non era anglosassone.
«No. No. Sono italiano», disse.
«Italiano? Anch’io!»
 Ovviamente quello non fu un caso: Stefano Brunori, cinquant‘anni, fiorentino, ex giornalista, da vent’anni monaco tibetano con il nome di Gelong Karma Chang Choub, me l’ero andato a cercare! Troppe coincidenze per essere frutto del caso! Chang Choub vive di solito in un monastero di Katmandu, ma i suoi «maestri» (già questa definizione mi appassionava: deve essere bello avere dei «maestri»; io da tempo non ne ho più avuti… O forse bisogna accontentarsi, per averne?) gli avevano permesso di venire in Thailandia per curarsi di una gastrite presa a causa di quella durissima dieta da monaco, fatta di sola verdura, il tutto mangiato, in fretta e senza piacere, prima di mezzogiorno. Accanto a casa nostra c’era un ottimo ospedale in cui avrebbe potuto farsi tutte le analisi necessarie e così Chang Choub si stabilì a Turtle House.

[..] A Katmandu gli era «successo qualcosa, dentro», come diceva; si era separato dalla moglie, era entrato da novizio in un monastero della setta tibetana e, dopo qualche tempo, aveva preso i voti. Il Dalai Lama stesso lo aveva ordinato monaco.

[..] Anche dell‘aspetto religioso della sua scelta parlava con distacco. «Buddha stesso ha detto di mettere tutto in discussione, di mettere in discussione i maestri e il Buddha stesso», ripeteva, come se volesse giustificare un’incertezza di fondo che, pur dopo tanti anni, gli era rimasta. Quel che a me suonava strano era il suo modo di parlare dei «maestri». Di uno con cui aveva studiato diceva: «Capisci, quello è avanzatissimo; è uno che ha alle spalle più di duecento anni di meditazione». Di un altro, che voleva incontrare, precisava: «Ha solo nove anni, ma nell’ultima vita è stato grandissimo e questa potrebbe essere la sua ultima reincarnazione».
A proposito di questo continuo rinascere dei grandi «maestri», o di quelli «molto avanzati» come li definiva lui, Chang Choub diceva che la stragrande maggioranza dei reincarnati nasce nelle famiglie di gente semplice, perlopiù contadini, perché questo facilita il loro sviluppo, perché così, da bambini, crescendo nei campi e vicini alle montagne, fanno le loro prime esperienze nella purezza della natura.

[..] La crisi di Stefano Brunori vent‘anni prima era ovvia. È quella che, in una forma o un’altra, prima o poi prende tutti. Basta cominciare a porsi delle domande per scoprire che alcune, specie le più semplici, non hanno risposte chiare. Bisogna andarsele a cercare. Ma dove? Lui aveva preso la direzione meno ovvia, una direzione difficile. Era stato attratto forse dall’esotico, dal diverso. Quelle parole straniere, nuove alle sue orecchie, gli dicevano molto più di quelle conosciute e vecchie della sua lingua. Il satori sembra davvero promettere di più che la «grazia».
Eppure, se quel fiorentino in crisi si fosse messo «in cammino» all’interno della sua cultura, si fosse fatto francescano o gesuita, si fosse ritirato a Camaldoli o La Verna, invece che in un monastero del Nepal, forse avrebbe trovato una strada più familiare, più adatta, meno solitaria. E almeno si sarebbe risparmiato quei terribili corni al mattino!


Tiziano Terzani - Un indovino mi disse, pp 98-102

 

 

2 commenti:

  1. I have met Stefano in 2001. I d love to get in touch with him again. Do you have his contact details? Appreciated- andrea

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    1. Unfortunately no, I simply quoted parts from Tiziano Terzani's book

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