Che brutta invenzione il turismo! Una delle industrie più malefiche! Ha ridotto il mondo a un enorme giardino d‘infanzia, a una Disneyland senza confini. Presto anche nella vecchia, remota capitale reale del Laos sbarcheranno a migliaia questi nuovi invasori, soldati dell’impero dei consumi e, con le loro macchine fotografiche, le loro implacabili videocamere, gratteranno via quell’ultima naturale magia che lì è ancora dovunque.
Perché in Asia, quando un vecchio si vede puntare addosso una macchina fotografica, si volta, resiste, cerca di nascondersi, si copre la faccia? Lo fa perché pensa che quella macchina gli porti via qualcosa di suo, qualcosa di prezioso che non può ritrovare. E non ha forse ragione? Non è anche nell’usura di decine di migliaia di foto, scattate da turisti distratti, che le nostre chiese hanno perso la loro sacralità, che nostri monumenti hanno perso la loro patina di grandezza?
Il Tibet, per proteggere la propria spiritualità, ha impedito per secoli a chiunque di varcare i suoi confini ed è così che ha mantenuto la sua specialissima aura. Lì, a rompere l‘incanto è stata l’invasione cinese: anche quella avvenuta, ovviamente, in nome dello sviluppo. Una delle notizie più sconcertanti che ho letto di recente è che i cinesi, per facilitare - e che altro? - l’accesso dei turisti, hanno deciso di «modernizzare» l’illuminazione del Potala, il palazzo-tempio del Dalai Lama, e ci hanno introdotto il neon. Non l’hanno certo fatto a caso: il neon uccide tutto, anche gli dei. E con loro muore sempre di più anche l’identità dei tibetani.
[..] Il Mekong era piatto e senza drammi, l‘acqua densa, con la superficie a volte mossa da grandi bolle di fango. Si scivolava via lenti fra le due sponde che erano l’essenza di quella contraddizione che dentro di me avrei tanto voluto risolvere: a sinistra la sponda laotiana con i villaggi di capanne all’ombra delle palme di cocco, le barche a remi ormeggiate al fondo di semplici scale di bambù e, la sera, i bagliori teneri delle lucine a olio nel silenzio; a destra, la sponda thailandese: luci al neon, la musica degli altoparlanti e il rombare lontano dei motori. Da una parte il passato da cui tutti vogliono strappare i laotiani, dall’altra il futuro verso cui tutti credono di dover correre. Su quale sponda la felicità?
[..] Per ogni disastro che avviene c‘è una immediata, ovvia spiegazione razionale: il gas scoppia perché non viene trasportato rispettando le regole di sicurezza; le fabbriche sono trappole di fuoco perché, invece di spendere soldi nei dovuti sistemi antincendio, i padroni preferiscono pagare una bustarella ai funzionari che dovrebbero controllare l’applicazione delle leggi. Eppure la spiegazione dei pii è in fondo in fondo la più vera, la più giusta, perché coglie l’essenza di quel che sta succedendo non soltanto a Bangkok, ma in tantissime altre parti del mondo: la natura si vendica sugli uomini che non la rispettano e che per pura ingordigia distruggono ogni tipo di armonia.
[..] Siccome nessuno dei conoscenti thailandesi era capace di indicarmi un indovino, mi tornò in mente il mio amico Sulak Sivaraksa, il solo filosofo vivente della Thailandia, già due volte candidato al premio Nobel per la pace. Sulak, un convinto buddhista, è l‘unico a criticare a fondo il modo con cui il paese sta sviluppandosi e non perde occasione per attaccare chi, secondo lui, ha abbandonato la giusta via: quella della tradizione.
[..] Anche la Birmania si è arresa dunque al comune destino! Per trent‘anni ha cercato di resistere isolandosi, andando per una sua via, ma non ce l’ha fatta. Nessuno sembra farcela. Dalla Cina di Mao all’India di Gandhi e alla Cambogia di Pol Pot, tutti gli esperimenti di autarchia, di sviluppo non capitalista, con caratteristiche nazionali, sono falliti. I più, per giunta, facendo milioni di vittime.
[..] In apparenza tutto va bene, oggigiorno in Asia. Le guerre sono finite, la pace, anche quella ideologica, regna, con pochissime eccezioni, sull’intero continente e ovunque non si fa che parlare di crescita economica. Eppure proprio ora questo antico, grande mondo di diversità sta per soccombere. Il cavallo di Troia è la «modernizzazione».
Invece di continuare sulla propria strada e cercare soluzioni asiatiche ai suoi problemi, l‘Asia importa adesso, senza alcuna discriminazione, le formule del successo altrui e quindi rinuncia progressivamente alla propria diversità. Il rapido sviluppo strangola la sua cultura, mentre la pressione del nuovo materialismo spezza i legami tradizionali, distrugge i vecchi schemi di valori e toglie la fiducia in tutto ciò che non è riconducibile al denaro. Modernizzazione vuol dire occidentalizzazione e con questo l’Asia perde definitivamente la coscienza di sé.
C’è per me qualcosa di tragico in questo continente che, così gioiosamente, uccide se stesso. Ma nessuno ne parla, nessuno protesta, tanto meno gli asiatici. In passato, quando l‘Europa batteva alle porte dell’Asia con le bordate delle sue cannoniere e chiedeva di aprire porti, di commerciare, di ottenere concessioni e colonie, quando le sue soldataglie saccheggiavano e davano alle fiamme un monumento come il Palazzo d’Estate a Pechino con uno spregio che ai cinesi brucia ancora sulla pelle, gli asiatici avevano, ognuno a suo modo, resistito.
[..] Uno dopo l‘altro, i vari paesi dell’Asia hanno finito per liberarsi del giogo coloniale e per mettere l’Occidente alla porta. Ma ora? L’Occidente rientra dalla finestra e conquista finalmente l’Asia non più impossessandosi dei suoi territori, bensì della sua anima. Lo fa ormai senza un piano, senza una precisa volontà politica, ma grazie a un processo di avvelenamento contro cui nessuno ha trovato per ora un antidoto: l’idea di modernità. Abbiamo convinto gli asiatici che solo a essere moderni si sopravvive e che l’unico modo di esser moderni è il nostro: il modo occidentale. Ci sono alternative? Nessuna. Tutti i tentativi di percorrere altre vie sono finiti male!
Proiettandosi come unico vero rappresentante del progresso umano, l‘Occidente è riuscito a dare, a chi non è «moderno» a sua immagine, un grande complesso di inferiorità - neppure il cristianesimo era riuscito a tanto! - e l’Asia sta ora buttando a mare tutto quel che era suo per acquisire tutto quel che è occidentale, sia nel modello originale, sia nelle imitazioni locali, da quella giapponese a quella thai, a quella di Singapore.
Copiare quel che è «nuovo», quel che è «moderno», è diventato un‘ossessione, una febbre per la quale non esiste cura. A Pechino si buttano giù le ultime case su cortile; nei villaggi dell’Asia del Sud-Est, in Indonesia come nel Laos, al primo segno di benessere, i bei materiali locali vengono sostituiti con quelli sintetici e i tetti di paglia rimpiazzati con quelli di bandone: poco importa se poi le case diventano calde come forni e nella stagione delle piogge le stanze sembrano tamburi dentro i quali ci si assorda!
Tutti ormai fanno così. Persino i cinesi! Anche loro, prima così fieri di essere eredi di una «cultura di 4000 anni» e perciò convinti di essere spiritualmente superiori a tutti, hanno ceduto e, significativamente, cominciano a sentirsi imbarazzati a mangiare ancora con le bacchette.
Adesso anche a loro pare di essere più presentabili con in mano coltello e forchetta; anche a loro pare di essere più eleganti se vestiti in giacca e cravatta. La cravatta! In origine un’invenzione dei mongoli per trascinare i prigionieri legati al pomo delle loro selle… appunto con una corda al collo.
[..] E allora! Sono felici, oggi, gli abitanti di Kengtung, riuniti in famiglia a parlare attorno ai piatti della cena, o lo saranno di più quando anche loro trascorreranno la serata, ebeti e ammutoliti, dinanzi a uno schermo televisivo? So bene che, a chiederglielo, loro stessi risponderebbero: meglio la televisione! Ed è proprio per questo che vorrei vedere almeno un posto come Kengtung retto da un re-filosofo, da un bonzo illuminato, da un qualche visionario che cercasse una via di mezzo fra l‘isolamento-stagnazione e l’apertura-distruzione e non certo dai generali che ora hanno in mano i destini della Birmania.
[..] Che differenza - pensavo - fra il crescere così, educati nello spartano ordine di un tempio, sotto quei Buddha, maestri di tolleranza, sentendo il tintinnare di quelle campanelle, e il crescere invece in una città come Bangkok, dove i giovani vanno ormai a scuola con un fazzoletto sulla bocca per proteggersi dagli scarichi delle macchine e con i tappi dei walkman nelle orecchie per soffocare con la musica rock il frastuono del traffico! Che differenti uomini debbono creare queste due diverse condizioni! Quali i migliori?
[..] Sarei andato volentieri a vivere in India quando i cinesi, nel 1984, prendendo per me una decisione che io non sarei mai riuscito a prendere - e con ciò facendomi un enorme favore -, mi arrestarono e mi espulsero dal loro paese. Ma a quel tempo non ci riuscii e passarono così altri anni. Non inutilmente. Nel frattempo ho vissuto cinque anni in Giappone, altri tre in Thailandia e alla vecchia ragione per voler andare in India se n‘è aggiunta ora una nuova e molto più importante: voglio vedere se l’India, con la sua spiritualità e la sua follia, è capace di resistere alla scoraggiante ondata di materialismo che sta spazzando il mondo; voglio vedere se l’India è capace di fare quadrato, di restare diversa; voglio vedere se in India rimane vivo il seme di un’umanità che ha altre aspirazioni oltre quella di correre, ingorda, verso la modernità dell’Occidente.
Vivendo a Bangkok ho avuto sotto gli occhi l‘esempio più lampante di uno sviluppo impazzito, delle orribili conseguenze di quella logica modernista che nessuno sa fermare e che è alla base dell’abbrutimento e della perdita di identità dell’Asia. Guardandomi attorno mi son detto più volte che non c‘è più una cultura in grado di resistere, di esprimersi con rinnovata creatività. La cultura cinese, umiliata dal confronto con l’Occidente, è moribonda almeno da un secolo e Mao, non a caso cercando di fondare una «Nuova Cina», ha finito per ammazzare quel poco della vecchia che restava. Senza più niente cui rifarsi, i cinesi ora non sognano che di diventare americani, con gli studenti che marciano sul Tien An Men dietro una statua, copia di quella della Libertà di New York, e i vecchi dirigenti marxisti-leninisti che fanno dimenticare i loro delitti e il loro voler restare attaccati al potere permettendo a tutti di correre dietro a sogni e illusioni di benessere occidentale.
Tiziano Terzani - Un indovino mi disse
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