domenica 1 ottobre 2017

L'arte regia - Andrea Colamedici, Maura Gancitano

Nella Prefazione a Il Libro del Dio Vivente di Bò Yin Rà, scritta nel 1919, lo scrittore ed esoterista austriaco Gustav Meyrink sottolineava alcuni punti straordinariamente in linea con ciò che intendiamo analizzare in questo libro. È probabile che avesse intravisto in alcuni movimenti esoterici e spirituali del proprio tempo qualcosa che noi riconosciamo oggi, preconizzando un tatto che -- a nostro parere — è poi tristemente accaduto.
Scriveva Meyrink:
Più l’ umanità attuale si interessa di argomenti occulti, più i giusti concetti sembrano farsi confusi.
La colpa è della superficialità, dell'assenza di principi metafisici e dell’ indifferenza verso tutti i campi che non abbiano a che vedere col denaro, ma anche del deprecabile fatto che chiunque può, senza la minima qualificazione, pubblicare un libro dopo l’altro, seminandoli nel mondo come un’erba cattiva che sommergerà le rare piante pregiate del giardino incantato della segreta conoscenza.
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«cui interessa di argomenti occulti»

Cosa sono gli argomenti occulti? Sono l’insieme di testi e tecniche che rispondono all’esigenza di fare esperienza di uno strato più profondo della realtà, celato (dal latino occultus, “nascosto”) dietro le apparenze del mondo ordinario. Gli argomenti occulti non rientrano nei bisogni primari dell’essere umano, ossia non sono necessari alla sopravvivenza dell’individuo. Ma — seguendo l’incitazione di Pompeo navigare necesse est, vivere non necesse (“navigare è necessario, vivere non è necessario”) -- per loro portata si pongono al di sopra dei bisogni primari. In altre parole, per chi percepisce dentro di sé la “chiamata spirituale” gli argomenti occulti rappresentano quel navigare tanto più importante del mero vivere.

«più i giusti concetti sembrano farsi confusi»
La spiritualità contemporanea ha reso quasi incomprensibile l’idea che esistano giusti concetti. È presente piuttosto un’unica grande didattica, semplicistica e consolatoria, che attraverso numerose sotto-didattiche appiattisce ogni tentativo di osservare se stessi e i misteri dell’Universo in una serie limitata e limitante di affermazioni (quasi sempre auto-assolutorie) e frasi fatte.
Il giusto concetto — una rappresentazione del reale che raccoglie e aggrega sapientemente i particolari — è invece l’applicazione coerente dell’intelletto, facoltà umana che nel corso dei secoli è via via uscita di scena; per la spiritualità consolatoria non esistono giusti concetti perché non esistono sbagliati concetti.
Semmai, esistono concetti troppo complessi, troppo "mentali”, che non lasciano spazio alla sensazione e al sentimento. Tutto è Bene, Tutto è Uno e Tutto, quindi, è Perfetto, in un’escalation di banalizzazione del reale che ha l’arroganza di prendere in esame qualunque cosa, a partire dai testi sacri di ogni epoca, che vengono tritati e macellati, pre-cotti e pre-masticati, in modo da essere comprensibili a tutti e applicabili nella vita quotidiana.
È un approccio che non tiene conto delle differenze ma mette qualunque ingrediente nel grande calderone della divulgazione e in questo modo confonde l‘interlocutore, che utilizza il linguaggio senza attenzione e consapevolezza, mescolando gli ingredienti culturali nella convinzione che, in fondo, ogni tradizione intenda dire pressoché la stessa cosa e che quindi sia più che lecito giocare al piccolo alchimista.

«La colpa è della superficialità»
Meyrink individua quattro grandi colpevoli, il primo dei quali è a nostro avviso il più importante. La superficialità, infatti, è la caratteristica della nostra epoca. Non è di per sé una caratteristica negativa: è l’abuso che se ne fa a essere pericoloso. Conoscere la superficie serve a orientarsi. a prendere le misure, a riconoscere i punti in cui è più sicuro appoggiare i piedi, ma il cammino interiore si nutre di complessità, di zone d’ombra, di profondità, di livelli e sfaccettature, di facce nascoste e di dimensioni ulteriori.
La superficialità oggi si manifesta attraverso la condivisione e adesione senza controllo delle fonti, la comparazione forzosa di filosofie, religioni e autori, l’idea che la risposta a una domanda si trovi in un libro, possa essere divulgata alle masse, sia già stata detta.


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La spiritualità contemporanea, invece, esiste principalmente in funzione del denaro, in un meccanismo di iperproduzione editoriale e formativa che approfitta di una riflessione critica sul senso del denaro e della ricchezza per lucrare senza sosta.

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Continuava Meyrink:
Per ritenersi abilitati a parlare della vera magia, dell’Arte Regia, bisogna aver dedicato a essa l’intera esistenza, essere per nascita uno di quegli inviati spirituali le cui tempie portano le favolose corna di un Mosè.
Da quando, nell’ultimo quarto di secolo passato, la russa H. P. Blavatsky fondò la Società Teosofica chiamando a raccolta in favore dell’arte quasi scomparsa della magia, è nato un movimento spirituale che (se non viene diretto all’ultimo momento sulla buona strada) può essere il preludio di un nuovo e tenebroso Medioevo, con le sue superstizioni, i suoi isterismi e le sue follie.
Meyrink non riusciva ad astenersi dal tentativo di rintracciare un’origine temporale dei meccanismi che vedeva in atto: è probabile che l’interesse nei confronti degli argomenti occulti sia nato grazie ai circoli di Madame Blavatsky, che è stata in grado di intercettare un interesse nascete da parte della — anche questa nascente -- società di massa. E forse in ciò risiede qualcosa di totalmente nuovo nella storia della spiritualità: il proselitismo.

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Il pericolo che Meyrink evidenziava era che questo momento potesse portare a una superstizione di massa, alla riemersione di vecchi isterismi, di credenze che — lontane dall’avere radici nell’esoterismo e nella spiritualità antica -- avrebbero avuto qualcosa in comune con la credenza popolare e con la religione. È davvero successo questo?
Peggio ancora.
Si tratta in questo caso di una caricatura della vera magia, di una maschera grottesca che nasconde il volto autentico della spiritualità immortale, di un ripugnante spettro che erra per il mondo, avvolto nel malconcio pastrano di una pseudo-scienza.
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 Tutti gli impostori avvizziti nel rancido balsamo della vanità e dell’auto-immensamente hanno sentito dire ai teosofi che esiste una campana che annuncia l’immortalità e già sanno tutti esattamente dove si trova, e i miserabili che li hanno creduti si precipitano in un deserto di sabbia senza fine, verso una campana che sono persuasi di aver sentito da lontano.
Ciò che il monaco, così come lo yogi, così come il sadhu, così come il sufi, così come le sacerdotesse cercavano per tutta la vita, e che sapevano di non sapere, e che non osavano pronunciare trova oggi spazio nei discorsi da bar, nei seminari del fine settimana, nei post su Facebook. È tutto chiaro, ogni cosa è illuminata.
Non c’è umiltà né estro nel pensiero di aver già trovato tutte le risposte, di aver già dimostrato tutto. E forse questa vanità non è molto diversa dallo scientismo, dal pregiudizio religioso, e in generale dall’atteggiamento di chi pensa di appartenere alla chiesa giusta. «Si accontentano delle domande che danno risposte inutili», chiosava Meyrink.
Il cercatore spirituale, invece, non sente mai di essere arrivato, ma si trova sempre in movimento, in viaggio, in ostante attenzione. Deve possedere un intento impeccabile, ed essere sempre disposto a imparare.
Non interpreterebbe mai la realtà sulla base di una griglia, di una tassonomia.
Non ha il successo come meta, né il mondo ordinario come orizzonte.
L’uomo, dalla nascita alla morte,
passa come un’ombra.
Cosa è esistito prima? Non ne sa niente.
Che cosa ci sarà dopo?
Non ne sa ugualmente nulla.
Al contrario, nel mondo spirituale contemporaneo non si fanno che trovare teorie e cosmogonie che vengono credute immediatamente vere. Non hanno la potenza immaginativa dei racconti tradizionali, e pretendono qualcosa di simile alla dimostrazione scientifica. Non c'è spazio per l’allegoria o per il dubbio, solo per il consenso.
Il cercatore procede a tentoni, non corre a bordo di una Ferrari, non cerca la consolazione, non ha tutte le risposte, ma ha sempre presente il fatto che siamo transeunti. La caducità, il suo posto nel cosmo, la sua possibilità di parteciparvi, ma al contempo la piccolezza che rappresenta. Il fatto che non è Dio, tutt’altro.
E che non sa niente di niente.
Il cammino del cercatore è lento, pericoloso, un percorso nel quale è possibile -- ed è molto frequente — convincersi di essere in viaggio quando si è bloccati in un fosso, nelle sabbie mobili, o si è finiti morti, bruciati.
Qual è lo scopo della spiritualità immortale? Trasformare l’animale, cioè prendere prima di tutto atto del fatto che siamo bestie, che abbiamo pulsioni grossolane, che siamo merda. Che siamo polvere. Che siamo niente. Trasformare l’animale che «si prende tutto, anche il cafiè, e che mi rende schiavo delle mie passioni», come cantava Franco Battiato.
 Per quanto ciò possa apparire incredibile, nient’altro che trasformare a poco a poco l’animale umano “coperto di pelli animali” e cacciato dal Paradiso nell’uomo originario e luminoso che, secondo le leggende, i racconti e i libri sacri, ha superato la morte.
La spiritualità immortale cerca di portare lo Spirito nella materia, di realizzare ciò che, secondo la tradizione - le leggende, i racconti e i libri sacri - può diventare l‘uomo. «Ecce Homo», il Superuomo, l’Uomo Nuovo, colui che ha superato la morte, la carne, la dimensione bestiale. «Certamente, è più difficile che suonare il piano». scriveva Meyrink. E in questo modo si rivolgeva a coloro che iniziano il percorso di lavoro su di sé come si intraprende un corso di cucina o di ricamo, cioè senza l'urgenza di abbandonare tutto, di spogliarsi totalmente, di partire senza mai tornare indietro.
Coloro a cui pare che esistano cose più importanti, o quasi altrettanto importanti nella vita, abbandonino subito: non farebbero che impoverire la loro esistenza, il loro corpo ne perderebbe e il loro spirito non ci guadagnerebbe nulla.
Anche l’atteggiamento attivo nei confronti della vita è molto diverso dalla “semi-passività” con cui il cercatore, secondo Meyrink, deve compiere i primi passi. Niente a che vedere con l’aumento, l’accumulo, il guadagno, niente a che vedere con il pirata che tenta il saccheggio dei reami invisibili; il cercatore è invece più simile al pellegrino, a colui che ha abbandonato tutto e che per procedere nel cammino non ha bisogno di niente. Colui che rifiuta ogni attaccamento, che si allontana da ogni desiderio, che prima di tutto cerca la libertà.

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 E se è vero che oggi l’essere umano è diverso, che il mondo in cui vive è diverso dall’ambiente settecentesco e che, come ha dichiarato Rama Krishna «le antiche vie sono sepolte», rimane fermo, immutabile e atemporale il suo scopo, cioè trasformarsi, andare, come ha scritto Sri Aurobindo solo pochi decenni fa, «oltre l’uomo».
Il lavoro del cercatore è un lavoro di sottrazione. La costante ricerca di una via d’uscita, della pietra filosofale, della chiave per sfuggire alla dissoluzione.
Ciò che oggi si fa chiamare spiritualità non prende neppure in considerazione questa ricerca, ma spinge a conquistare sempre di più, ad aggiungere diplomi, qualità, abilità, a fare curriculum. Se ricordasse che siamo transeunti, che non siamo niente, che polvere siamo e polvere ritorneremo, e che nessuno può dirci davvero cosa accadrà dopo la morte, le sue fondamenta si sbriciolerebbero. Non c’è niente di sbagliato nelle tecniche di coaching, nel training autogeno, nel counseling e in generale in tutto ciò che ha come obiettivo la guarigione da blocchi fisici ed emotivi. Il punto è che ciò non e spiritualità, ma psicologia.


Andrea Colamedici, Maura Gancitano, Tu non sei Dio, pp 27-40

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